Il manji, un simbolo religioso frainteso e “rubato” dal nazismo

manji
L’indicazione del tempio buddista Shitenno-ji sulla mappa di Osaka.

Mentre studiavo le mappe delle città giapponesi, per pianificare al meglio il nostro viaggio, un dettaglio mi ha incuriosita e, nello stesso tempo, turbata. La frequente presenza di svastiche a indicare alcuni luoghi di culto (nella fattispecie, i templi buddisti), esattamente come accade in Europa con croci e chiese. Questo dettaglio mi ha spinta a colmare una mia (grossa) lacuna culturale. E a scoprire come il cosiddetto manji (questo è il nome del simbolo in Giappone, mentre il nostro svastica deriva dal sanscrito) sia in realtà un antichissimo simbolo religioso, collegato ai concetti di eternità, compiutezza e armonia degli opposti. E come non abbia niente a che vedere con il nazismo, che se n’è appropriato nel XX secolo, fraintendendone completamente origine e significato.

Il manji è un simbolo presente ancora oggi nelle tradizioni religiose di India, Cina e Giappone, con sfumature di significato spesso differenti, ma tutte positive. In Giappone, è un simbolo benaugurale, associato non solo ai templi buddisti, ma anche all’iconografia dello stesso Buddha. Non è raro, ad esempio, trovare delle statue del Buddha con un manji inciso sul petto. Il simbolo può avere due forme. L’omote manji, con i rebbi rivolti a sinistra, è più antico e diffuso e indica grazia, amore e misericordia. L’ura manji, invece, con i rebbi a destra, è simbolo di forza e intelligenza.

Leggendo e informandomi meglio, ho anche scoperto di non essere stata l’unica turista occidentale ad aver strabuzzato gli occhi di fronte a mappe e guide turistiche giapponesi. La reazione che ho avuto è così comune che, qualche anno prima delle Olimpiadi di Tokyo, gli organizzatori dell’evento avevano pensato di indire una consultazione pubblica per valutare se eliminare il manji come indicazione dei luoghi di culto. La proposta era di sostituirlo con una più neutra pagoda a tre piani, proprio per evitare di sconvolgere i visitatori occidentali. I giapponesi, tuttavia, avevano scelto per mantenere il loro simbolo, perché presente da secoli nella loro cultura e nella loro religione. E, soprattutto, perché non ha niente a che vedere con il nazionalsocialismo e con i suoi crimini.

L’appropriazione del manji da parte di movimenti nazionalisti e razzisti è avvenuta a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Uno dei protagonisti di questo processo è stato Josef Lanz, un aristocratico austriaco, ex monaco cistercense, affascinato da occultismo ed esoterismo. Durante un viaggio in India, Lanz acquistò un anello su cui campeggiava un manji e si convinse di riconoscervi il simbolo del predominio di una presunta “razza ariana”.

Tornato in Europa, Lanz fondò un movimento esoterico e diffuse la sua convinzione, accompagnandola con la nozione della superiorità dei cosiddetti ariani. A costoro, che a suo dire vivevano prevalentemente in Germania e Austria e che si potevano riconoscere dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, spettava il compito di eliminare le razze inferiori, a cominciare dal popolo ebraico. Il partito nazionalsocialista fece proprie queste opinioni, così come il simbolo, rendendolo sinonimo, in Occidente, di persecuzione, guerra e sterminio.

Niente di più lontano, insomma, da ciò che il manji è stato sin dalle sue origini, e da ciò che rappresenta ancora oggi nelle culture orientali.